Il trionfo dell’amichettismo

febbraio 1, 2024

amica

Il neologismo amichettismo non esce dalla penna di un polemista o di un sociologo. Per quanto ne so io, lo ha prodotto il/la Presidente del Consiglio, in una comunicazione pubblica che dà al termine il rango dell’ufficialità. Ma quel che colpisce è che né lui/lei, né altri in seguito, hanno sentito la necessità o il dovere di spiegarne il significato. Evidentemente tutti danno per scontato che gli italiani sappiano cos’è l’amichettismo. E probabilmente è così. La versione aggiornata del nepotismo, nel quale il favoritismo del potere non discende unicamente dal rapporto parentale, ma da un qualsiasi legame personale anti-istituzionale, derivante da comunanza di qualsiasi tipo, da solidarismo amicale, da frequentazione di letto. La versione aggiornata del familismo amorale di cui parliamo da decenni, che tutti deplorano al tempo stesso praticandolo. Sarebbe certamente commendevole se si volesse combattere tali fenomeni, ma sappiamo bene che contro di essi a poco servono le leggi, ad ancor meno le paternali e gli ammonimenti, a nulla le denunce pubbliche seguite dal niente.

Il fatto che il/la Presidente del Consiglio attribuisca il fenomeno solamente ai partiti a lei/lui avversi, fa sinceramente sorridere, perché, se è vero che il Partito democratico ha largamente abusato del sistema, è altrettanto preclaro che i partiti attualmente in maggioranza sono stati ben lieti di seguirne e superarne l’esempio. Ma la sua implicita denuncia pubblica può farci sperare in un cambiamento di rotta? Temo di no. Perché è in campo una combinazione di riforme che moltiplicherà il fenomeno, rendendolo ancor più endemico di quanto non sia già: l’autonomia differenziata unita all’indebolimento della repressione dei reati contro la Pubblica amministrazione (abuso d’ufficio, traffico di influenze).

Ogni italiano avveduto sa che gli enti locali, Regioni e Comuni, sono l’alveo naturale in cui si esplica e sviluppa, nelle forme più pervasive, il trionfo dei favoritismi. La sciagurata riforma del titolo quinto della Costituzione, potenziando i poteri degli organi decentrati, ha già fornito ampi esempi. Le assunzioni negli enti locali, nelle società multiservizi, nella galassia delle partecipate. La moltiplicazione dei centri di spesa. L’universo delle imprese – spesso cooperative, vere o fasulle – che a tali soggetti forniscono beni o servizi. La proliferazione di consulenze, incarichi, appalti di ogni genere e tipo, sono gli ambienti, i contesti, i mezzi in cui il rapporto personale è fulcro, ineludibile e miracolistico, che consente di creare e consolidare carriere, di generare e incrementare redditi, di sistemare amici e parenti. Il tutto grazie a meccanismi che, per vastità della prassi e per inadeguatezza dei mezzi, nessun organo giurisdizionale è in grado di arginare. Allargando gli spazi di manovra degli enti locali, tale fenomeno non può che ingigantirsi oltre il già intollerabile livello. Intollerabile perché esso ha come conseguenza la marginalizzazione degli esclusi, la metastasi burocratizzante, l’inquinamento intollerabile della politica locale, ridotta a mercimonio di favori. Uno stato di cose a cui ormai siamo abituati e che non sembra intaccabile, perché esso è diventato il principale elemento costitutivo del consenso politico/partitico.

Nei grumi di interesse locale, ben agganciati alle leve di comando nazionali, si coagula infatti il consenso elettorale dei deboli partiti politici esistenti. Il voto di opinione – se mai è esistito – è modesto, ininfluente e residuale, essendo stato sostituito da un voto che sarebbe semplicistico chiamare clientelare, ma che possiamo definire come voto di legittimo interesse. Si vota il partito che, in un modo o nell’altro, può garantire un vantaggio personale di un qualche tipo. A livello locale e quindi, per traslazione, anche a livello nazionale.

L’autonomia differenziata è sbagliata in radice per la disuguaglianza che creerà fra i cittadini di regioni diverse, ma è ulteriormente deplorevole per l’aumento della spesa locale che andrà ad alimentare la proliferazione dei favoritismi e delle clientele. Accrescendo, anche a livello locale, le disparità fra privilegiati e svantaggiati, fra raccomandati e no. Fra amichette/i e non amichette/i, per dirla con Giorgia Meloni.


Saluti romani e premierato

gennaio 27, 2024

Primo Acquarello Astratto, 1910 - Wassily Kandinsky

L’esame di quanto vi sia di fascista o di antifascista in ognuno di noi è uno degli aspetti più tristi di questa epoca post-berlusconiana. Ma la mestizia per il presente e la vergogna per il passato non dovrebbero incrinare l’attenzione per quello che accadrà in futuro. Perché l’attuale maggioranza di governo ha avviato quella che – non a caso – definisce madre di tutte le riforme, ovvero l’introduzione del premierato. Nel dibattito politico e giornalistico, mai così povero di idee, si pone l’accento sulla limitazione dei poteri del Presidente della Repubblica, che certamente esiste, trascurando tuttavia l’aspetto peggiore, ovvero l’inserimento in Costituzione del principio elettorale maggioritario. Il progetto prevede che l’elezione diretta del capo del governo produca l’automatica formazione di una maggioranza parlamentare a esso vincolata. Chi sostiene che questa riforma sarebbe ispirata ai regimi (semi)presidenziali americano o francese, dimentica che in tali sistemi un simile ancoraggio non esiste. A nessuno, in Francia o negli Stati Uniti, è mai venuto in mente di subordinare l’elezione dell’Assemblea nazionale o del Congresso a quella del Presidente. Gli elettori di quei paesi sono liberi di votare direttamente il Presidente e di eleggere un Parlamento di orientamento diverso o opposto. In questa possibilità vi è un tratto essenziale della democrazia che, evidentemente, sfugge a noi italiani, pronti a consegnarci a un assetto istituzionale dirigistico bislaccamente mutuato da logiche amministrative (il sindaco d’Italia, ahinoi).

Se alziamo lo sguardo dalle miserie attuali, riconosciamo nel progetto di premierato il principio secondo cui un Parlamento indipendente e realmente sovrano costituisce solamente un ostacolo all’attività di governo, un intralcio alla realizzazione della volontà popolare, di cui il premier sarebbe, per infusione ordalica, il solo depositario. In breve, l’ideologia che sorregge questa riforma ha un nome antico e ben preciso: antiparlamentarismo. E allora, invece di preoccuparci dei saluti romani di Acca Larentia, o dei busti conservati nei salotti privati, dovremmo riconoscere il risorgere dell’ideologia antiparlamentare che fu elemento costitutivo sia del fascismo che del nazismo. Il disprezzo per i partiti, per le assemblee elettive, unito all’esaltazione della figura del capo, fu il tratto iniziale delle dittature novecentesche, sfociato nell’orgoglio con cui esse si lanciarono nella guerra contro le democrazie. Perché così, con italico disprezzo, la retorica mussoliniana definiva Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, stati che nulla di male ci avevano fatto e cui dichiarammo guerra in un delirio simultaneamente criminale e comico.

Prendiamo atto che stiamo scivolando su un piano inclinato che va in una direzione simile, verso un sistema progressivamente antiparlamentare, nel quale le camere sono ridotte a organi di ratifica. Non vale l’argomento secondo cui questa è già la realtà. È vero che il nostro Parlamento è attualmente, di fatto, subordinato al governo, ma ciò è per colpevole ignavia dei partiti, nonché di deputati e senatori, non per disposizione costituzionale. Noi cittadini possiamo pur sempre sperare di riavere un giorno un Parlamento che ci restituisca la sovranità, riappropriandosi di tutte le sue prerogative. Una speranza che ci si vuole negare, costituzionalizzando la sottomissione delle camere all’esecutivo.

Queste considerazioni sono talmente banali che neppure volevo scriverle, quasi vergognandomi di farlo. Poi mi è capitato di fare un sogno. Ho sognato di andare al voto per il premier, in una Italia distopica in cui la riforma meloniana è legge. E sulla scheda, nel sogno, c’erano due nomi: Roberto Vannacci e Andrea Scanzi. Allora mi sono deciso a postare questo articolo.

Infatti non possiamo nasconderci che una modifica costituzionale di tale portata avrà conseguenze imprevedibili. Non è scritto da alcuna parte che, una volta introdotta, Giorgia Meloni verrà eletta in perpetuo a Palazzo Chigi. Con l’elezione diretta del premier, a decidere i concorrenti non saranno i partiti, ma i sondaggi: chi ha più probabilità di vincere viene candidato, chi ne ha meno, quali che siano i suoi meriti, viene scartato. E l’argomento secondo cui, con essa, gli elettori potranno scegliere il capo del governo è fallace. Con due o tre soli nomi possibili, non si tratta di una “scelta”, ma di una estrazione a sorte.

Se si vuole restituire sovranità al corpo elettorale, si deve ripristinare il sistema elettorale proporzionale con voto di preferenza. Restituendo al Parlamento la dignità e il ruolo voluti dai costituenti, spazzando via la deriva antiparlamentare corrente che tanto sinistramente ci riporta indietro di un secolo.


Firmiamo per abolire il contante

ottobre 4, 2023

 

 

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https://www.ioscelgo.org/petizioni/aboliamo-il-denaro-contante/

 

 

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Due agosto, sei gennaio

agosto 10, 2023

2agosto

Non è facile tacere leggendo le reazioni del mondo politico e giornalistico al testo pubblicato da Marcello De Angelis sulla strage del due agosto 1980, testo che riporto in calce per mia futura memoria. Provo a dire quello che mi sarei aspettato di leggere o di udire. L’ex senatore, ex deputato, ex direttore de Il Secolo d’Italia, ex detenuto per associazione sovversiva, attuale responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio, scrive, in particolare:

Il 2 agosto è un giorno molto difficile per chiunque conosca la verità e ami la giustizia, che ogni anno vengono conculcate persino dalle massime autorità dello Stato … so per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza. E in realtà lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e “cariche istituzionali”.

E allora, viene da dire, che si presenti nelle procure competenti e fornisca gli elementi per scagionare gli innocenti e individuare i veri colpevoli. E per smascherare i depistaggi, dal momento che aggiunge:

Dire chi è responsabile non spetta a me, anche se ritengo di avere le idee chiarissime in merito nonché su chi, da più di 40 anni, sia responsabile dei depistaggi.

Visto che sa tutto, che lo vada a riferire nelle sedi deputate.

In luogo di tali ovvietà, ho letto soprattutto invocazioni a “dimissioni” (spontanee o forzate) e richieste di “scuse”. Ma di cosa dovrebbe scusarsi, visto che ha detto cose di cui è certo? A dire il vero, nell’articolo successivo che pure riporto sotto, egli stesso si è rettificato, sostituendo la certezza con il dubbio:

In merito alla più che quarantennale ricerca della verità sulla strage di Bologna, l’unica mia certezza è il dubbio.

Dubbio che egli rafforza citando il comitato “E se fossero innocenti?” (http://www.stragi.it/listacomitato).

Accettiamo che il primo testo sia stato un modo irruento di esprimere questo dubbio, che è perfettamente legittimo coltivare, dal momento che Mambro e Fioravanti vennero condannati sulla base di numerosi, pesanti e convergenti indizi. Numerosi, pesanti e convergenti, ma pur sempre indizi, non prove. Nessuno può essere dimissionato per aver espresso un dubbio, ma vale la pena leggere De Angelis fino alla fine:

Non riusciranno a farmi rinunciare a proclamare la verità. Costi quel che costi…
Come GioNa tra i flutti non tremo…
Vieni a prendermi balena, non ti temo
E scusate se ve lo dico – col massimo del rispetto e dell’amicizia – a questo post non basta mettere un “mi piace”, dovete rilanciarlo e condividerlo… altrimenti hanno vinto loro, gli apostoli della menzogna…

Apostoli della menzogna? Come Giona tra i flutti non tremo? Balena, non ti temo?

Ma come parla? Come scrive?

Lasciatemelo dire: questo Marcello De Angelis dovrebbe proprio dimettersi, e non per aver espresso un dubbio (o anche una certezza), ma per il linguaggio che usa, per la prosa che produce. Perché stiamo parlando del responsabile comunicazione istituzionale della Regione Lazio. E sottolineo istituzionale.

Anche perché l’informazione istituzionale dovrebbe avere una qualche completezza. E aggiungo io alcune informazioni su Mambro e su Fioravanti, traendole dal sito dei familiari delle vittime della strage del due agosto, che andrebbero sempre ricordati e ricordate quando di ciò si parla (familiarivittime).

Su Valerio Fioravanti:

ergastolo per l’omicidio di Roberto Scialabba (28 febbraio 1978)
ergastolo per l’omicidio di Antonio Leandri (17 dicembre 1979)
ergastolo per l’omicidio di Maurizio Arnesano (6 febbraio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Franco Evangelista (28 maggio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Mario Amato (23 giugno 1980)
ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980) (*)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Mangiameli (9 settembre 1980)
ergastolo per l’omicidio di Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981)
Fioravanti ha inoltre accumulato complessivamente 134 anni e 8 mesi di reclusione per reati quali: furto e rapina (una ventina), violazione di domicilio, sequestro di persona, detenzione illegale di armi, detenzione di stupefacenti, ricettazione, violenza privata, falso, associazione a delinquere, lesioni personali, tentata evasione, banda armata, danneggiamento, tentato omicidio (28 febbraio 1976, 15 dicembre 1976, 9 gennaio 1977, 28 febbraio 1978, 6 marzo 1978), incendio, sostituzione di persona, strage, calunnia, attentato per finalità terroristiche e di eversione.
Anni effettivamente scontati in carcere: 18.

Su Francesca Mambro:

ergastolo per l’omicidio di Franco Evangelista (28 maggio 1980)
ergastolo per l’omicidio di Mario Amato (23 giugno 1980)
ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna (2 agosto 1980) (*)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Mangiameli (9 settembre 1980)
ergastolo per l’omicidio di Enea Codotto e Luigi Maronese (5 febbraio 1981)
ergastolo per l’omicidio di Giuseppe De Luca (31 luglio 1981)
ergastolo per l’omicidio di Mambroarco Pizzari (30 settembre 1981)
ergastolo per l’omicidio di Francesco Straullu e Ciriaco di Roma (21 ottobre 1981)
ergastolo per l’omicidio di Alessandro Caravillani (5 marzo 1982)
La Mambro ha inoltre accumulato complessivamente 84 anni e 8 mesi di reclusione per reati quali: furto e rapina (una ventina in tutto), detenzione illegale di armi, violazione di domicilio, sequestro di persona, ricettazione, falso, associazione sovversiva, violenza privata, resistenza e oltraggio, attentato per finalità terroristiche, occultamento di atti, danneggiamento, contraffazione impronte.
Anni effettivamente scontati in carcere: 16.

Alla domanda “e se fossero innocenti?”, direi che possiamo azzardare una prima timida risposta: se (anche) fossero innocenti (per la strage del due agosto) dovrebbero comunque ringraziare il cielo per essere cittadini di un paese come l’Italia, dove otto ergastoli e un secolo di carcere si riducono a 18 anni di reclusione seguiti dalla libertà. Perché attualmente sono liberi. Non semiliberi. Liberi.

Ma se scrivo questo articolo è per altre ragioni riguardanti il legittimo dubbio sulle sentenze definitive. Dubbio che è sempre lecito coltivare, ma non solo per le sentenze di condanna, bensì anche per quelle di assoluzione. Con la doverosa precisazione che le sentenze di condanna possono essere riviste e annullate, mentre quelle di assoluzione, una volta passate in giudicato, no. Ebbene, giova ricordare che Valerio Fioravanti venne processato e assolto per l’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto il sei gennaio 1980. A tal proposito, nel 1986, Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio e membro egli stesso dei NAR, dichiara quanto segue a Giovanni Falcone (v. Giuliano Turone, l’Italia occulta, cap. XII, p. 229-255):
Della partecipazione di mio fratello Valerio all’omicidio Mattarella appresi da lui stesso dopo l’omicidio del Mangiameli [9 settembre 1980] … All’uopo era stata fatta una riunione a Palermo in casa del Mangiameli, … e nel corso di essa erano intervenuti, oltre che il Mangiameli, mio fratello Valerio, la moglie del Mangiameli, e una persona della Regione (non so se un funzionario o un politico). Quest’ultimo avrebbe dato la “dritta”, cioè le necessarie indicazioni per poter programmare l’omicidio. Aggiunse mio fratello che l’omicidio era stato poi effettivamente commesso da lui e dal Cavallini… Sono sicuro che Valerio mi abbia detto la verità nel confidarmi le sue responsabilità nell’omicidio dell’uomo politico siciliano. Egli doveva convincermi dell’utilità, dopo l’uccisione del Mangiameli, anche dell’uccisione della moglie … che aveva partecipato alla riunione in cui si era decisa l’uccisione ed era ancor più pericolosa del marito.

Alberto Volo, estremista di destra militante in Terza posizione e sodale di Mangiameli, nel 1989 dichiara al pool antimafia di Palermo che
per quanto attiene più precisamente all’omicidio di Piersanti Mattarella erano stati Riccardo e il prete, cioè Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini (ibidem).

A ciò si aggiungono le testimonianze oculari di Irma Chiazzese, moglie di Piersanti Mattarella, e della domestica, che riconobbero in Fioravanti l’omicida (a volto scoperto) che uccise l’uomo politico a colpi di rivoltella calibro 38. Nel processo testimoniarono numerosi pentiti di mafia, alcuni dei quali esclusero la partecipazione dei NAR, di modo che vennero condannati come mandanti i vertici di Cosa nostra (Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci), mentre Fioravanti e Cavallini vennero invece assolti con una motivazione che il figlio della vittima, Bernardo, così commentò: a mia madre è stato preferito il pentito che dice di non aver mai sentito il nome di Fioravanti. Il mancato ricordo dei pentiti porta a scagionare l’imputato. È l’aberrazione del diritto (Wikipedia, voce Piersanti Mattarella – il processo).
La sentenza è definitiva dal 1999 e quindi per quel fatto Fioravanti è da considerarsi irrevocabilmente innocente. Non potrebbe essere processato neppure se confessasse. Proprio per questo l’intera galassia degli (ex?) estremisti di destra, fra cui Marcello De Angelis, potrebbe illuminarci sulla verità. Dal momento che tutto sanno sulla strage del due agosto, sicuramente sanno anche dell’omicidio del sei gennaio. E dovrebbero essere essi stessi ad avvertire l’esigenza di verità. In particolare il medesimo De Angelis, il quale punta il dito contro “le massime autorità dello Stato” che ogni anno “conculcano la verità e la giustizia” sul due agosto. Cariche che a suo dire, come lui stesso, sanno con assoluta certezza che “Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c’entrano nulla con la strage”. Vi è sicuramente, fra gli estremisti di destra, chi ha medesime certezze anche sull’omicidio di Piersanti Mattarella, e dovrebbe essere suo dovere morale esprimersi. Perché fra le massime autorità dello Stato che secondo De Angelis conculcano la verità e la giustizia ogni anno, par di capire che vi sia anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che di Piersanti, guarda il caso, era il fratello.

Strano paese è quello in cui l’uomo accusato dalla moglie del fratello del Capo dello Stato di esserne l’assassino – reo confesso di omicidi, rapine, terrorismo, e condannato a otto ergastoli e oltre un secolo di carcere – circola libero e scrive sui giornali. Difeso, come se non bastasse, dai responsabili delle comunicazioni istituzionali.

Testi di Marcello De Angelis.
1.
Il 2 agosto è un giorno molto difficile per chiunque conosca la verità e ami la giustizia, che ogni anno vengono conculcate persino dalle massime autorità dello Stato (e mi assumo fieramente la responsabilità di quanto ho scritto e sono pronto ad affrontarne le conseguenze).
La differenza tra una persona d’onore e uno che non vale niente è il rifiuto di aderire a versioni di comodo quando invece si conosce la verità. E accettare la bugia perché così si può vivere più comodi.
Intendo proclamare al mondo che Cristo NON è morto di freddo e nessuno potrà mai costringermi a accettare il contrario.
Così come so per certo che con la strage di Bologna non c’entrano nulla Fioravanti, Mambro e Ciavardini.
Non è un’opinione: io lo so con assoluta certezza. E in realtà lo sanno tutti: giornalisti, magistrati e “cariche istituzionali”.
E se io dico la verità, loro – ahimè – mentono.
Ma come i martiri cristiani io non accetterò mai di rinnegare la verità per salvarmi dai leoni.
Posso dimostrare a chiunque abbia un’intelligenza media e un minimo di onestà intellettuale che Fioravanti, Mambro e Ciavardini non c’entrano nulla con la strage. Dire chi è responsabile non spetta a me, anche se ritengo di avere le idee chiarissime in merito nonché su chi, da più di 40 anni, sia responsabile dei depistaggi.
Mi limito a dire che chi, ogni anno e con toni da crociata, grida al sacrilegio se qualcuno chiede approfondimenti sulla questione ha SICURAMENTE qualcosa da nascondere.
A me, con questo ignobile castello di menzogne, hanno tolto la serenità, gli affetti e una parte fondamentale della vita.
Non riusciranno a farmi rinunciare a proclamare la verità. Costi quel che costi…
Come GioNa tra i flutti non tremo…
Vieni a prendermi balena, non ti temo
E scusate se ve lo dico – col massimo del rispetto e dell’amicizia – a questo post non basta mettere un “mi piace”, dovete rilanciarlo e condividerlo… altrimenti hanno vinto loro, gli apostoli della menzogna…

2.
Negli ultimi giorni ho espresso delle riflessioni personali sul mio profilo social, che sono invece diventate oggetto di una polemica che ha coinvolto tutti.
Intendo scusarmi con quelli – e sono tanti, a partire dalle persone a me più vicine – a cui ho provocato disagi, trascinandoli in una situazione che ha assunto dimensioni per me inimmaginabili.
Ho altresì il dovere di fare chiarezza su affermazioni che possono essere fraintese per l’enfasi di un testo non ponderato, ma scritto di getto sulla spinta di una sofferenza interiore che non passa ed è stata rinfocolata in questi mesi.
I colleghi giornalisti che quotidianamente e pubblicamente mi definiscono un ex-terrorista – pur nella consapevolezza del fatto che non sono mai stato condannato per nessun atto criminale o gesto di violenza – infangano il mio onore e mi negano la dignità di una intera vita. Perché un terrorista è una persona schifosa e vile.
Ho servito e rappresentato le istituzioni democratiche per anni e ne ho il massimo rispetto, così come per tutte le cariche dello Stato, che da parlamentare ho contributo ad eleggere e che oggi sostengo come cittadino elettore.
Fra queste e prima di tutte, la Presidenza della nostra repubblica.
In merito alla più che quarantennale ricerca della verità sulla strage di Bologna, l’unica mia certezza è il dubbio.
Dubbio alimentato negli anni dagli interventi autorevoli di alte cariche dello Stato come Francesco Cossiga e magistrati come il giudice Priore e da decine di giornalisti, avvocati e personalità di tutto rispetto che hanno persino animato comitati come “E se fossero innocenti”.
Purtroppo sono intervenuto su una vicenda che mi ha colpito personalmente, attraverso il tentativo, fallito, di indicare mio fratello, già morto, come esecutore della strage. Questo episodio mi ha certamente portato ad assumere un atteggiamento guardingo nei confronti del modo in cui sono state condotte le indagini.
Esprimo quindi dubbi, così come molti hanno espresso dubbi sulla sentenza definitiva contro Adriano Sofri senza per questo essere considerati dei depistatori o delle persone che volessero mancare di rispetto ai familiari del commissario Calabresi.
Per tutte le vittime della folle stagione dei cosiddetti anni di piombo e dei loro familiari ho il massimo rispetto, vieppiù per chi sia finito sacrificato innocentemente in eventi mostruosi come le stragi che hanno violentato il nostro popolo e insanguinato la nostra Patria massacrando indiscriminatamente.
Nel ribadire il mio rispetto per la Magistratura, composta da uomini e donne coraggiosi che si sono immolati per difendere lo Stato e i suoi cittadini, ritengo che tutti abbiano diritto ad una verità più completa possibile su molte vicende ancora non del tutto svelate.
Ho appreso che l’attuale governo, completando un percorso avviato dai governi precedenti, ha desecretato gli atti riguardanti il tragico periodo nel quale si colloca la strage del 2 agosto 1980: mi auguro che l’attento esame dei documenti oggi a disposizione permetta di confermare, completare e arricchire le sentenze già emesse o anche fare luce su aspetti che, a detta di tutti, restano ancora oscuri.
Ribadisco le mie profonde scuse nei confronti di chi io possa aver anche solo turbato esprimendo le mie opinioni. Anche se rimane un mio diritto, prima di scrivere e parlare bisogna riflettere sulle conseguenze che il proprio agire può avere sugli altri.
Viviamo per fortuna in una società civile in cui il rispetto degli altri deve essere tenuto in conto almeno quanto la rivendicazione dei propri diritti.


Btp e Isee

marzo 2, 2023

btp

Leggo che il governo avrebbe allo studio meccanismi fiscali volti a favorire l’acquisto di titoli di Stato (Btp) da parte di cittadini italiani. Un programma di ri-nazionalizzazione del debito che dovrebbe ridurre i rischi finanziari dovuti alla speculazione internazionale. Un suggerimento? Basterebbe scorporare i depositi in titoli di Stato dal calcolo dell’Isee. Tanti italiani che ora sono penalizzati nell’accesso al welfare o ad altri benefici per via dei propri risparmi correrebbero a investire in Btp.

Se mi si dovesse obiettare che ciò costituisce un favore ai benestanti (come se chiunque possieda Btp lo fosse), rispondo che la Costituzione, all’articolo 47, incoraggia e tutela il risparmio.


Chi comanda nel pd?

febbraio 22, 2023

primarie

Alle prossime “primarie”, che tali non sono, il partito democratico si attende un milione di votanti ai quali chiederà un obolo di (almeno) due euro. Fanno due milioni di euro. Da impiegare come?

Leggendo la storia recente, ci sovvengono i seguenti avvenimenti.
Nell’estate del 2019 il governo Cinquestelle-Lega va in crisi e il segretario del Pd Zingaretti punta a elezioni immediate. Ma non va così. Per volontà del precedente segretario (!), certo di non avere posti in lista, la legislatura prosegue e a Zingaretti viene imposta l’alleanza con i grillini. Inizialmente dice di no. Poi accetta, a condizione Conte si faccia da parte. Poi accetta anche Conte e il 5 settembre 2019 nasce il governo cinquestelle-Pd. La sua vita è appesa alla nascita del nuovo partito di Renzi, che infatti vede la luce il 18 settembre, in previsione di veloci elezioni. Ma, ahinoi, esplode la pandemia covid-19, e il governo Conte II sopravvive a sé stesso. Tanto che Zingaretti si adatta all’alleanza con i Cinquestelle. Tuttavia, a sorpresa, il 4 marzo 2021, Zingaretti annuncia le dimissioni accusando il personale del suo stesso partito di pensare più alle poltrone che al bene del Paese. Un’accusa infamante, cui nessun esponente del partito si degna di rispondere, cui non segue alcuna protesta o rivolta da iscritti e militanti. D’altronde, lo stesso Zingaretti lascia il partito per un poltrona, quella di Presidente di Regione, in attesa di traslarsi su un’altra, in Parlamento. Insomma, davanti al j’accuse del segretario, nessuno fa un plissé. Nemmeno lui.

Dieci giorni dopo, con elezione repentina, il suo successore Enrico Letta gli succede come segretario, ereditando l’alleanza con il Movimento di Grillo. Alla quale rimane fedele nel passaggio al governo Draghi fino all’estate del 2022, quando una nuova crisi porta alle elezioni anticipate del 25 settembre 2022. In questo frangente si esplica l’unico atto della sua segreteria per il quale egli sarà ricordato: la rottura con Conte che consegna il partito democratico alla più catastrofica sconfitta sua e del centrosinistra italiano in tutta la storia della Repubblica. Tanto si è detto di tale decisione, dipingendo lo stesso Letta come un autolesionista miope e ottuso. Dubito che sia tale, e credo che fosse perfettamente consapevole della sconfitta che stava preparando per il suo partito, così come Zingaretti era consapevole di lasciarlo dopo averlo guidato in scelte alle quali era contrario.
Alle inevitabili dimissioni di Letta, segue immediatamente il “congresso” che sta ora per concludersi.

Una domanda sorge spontanea. Per scegliere il successore di Letta, saranno necessari cinque mesi. Al contrario, per collocare lo stesso Letta al posto di Zingaretti, furono sufficienti dieci giorni. Eppure erano soggetti totalmente diversi, per storia, cultura e collocazione al momento dell’avvicendamento. Ma non ci furono indecisioni, a differenza di ciò che avviene ora, ove il parto della nuova segreteria è un rito estenuante e oggettivamente vuoto. Forse perché, per dirla con Zinga, è solo una questione di poltrone.

Ma se il segretario del pd è un tizio inutile costretto a fare cose cui è contrario, perché tanta pena per trovarne uno? E allora, mi viene di suggerire un buon uso dei due milioni in cappello. Andare da uno informato e porre la cruciale domanda: ma chi è che comanda nel pd?


Commissione! Commissione! Commissione!

febbraio 18, 2023

commissione

Una Commissione d’inchiesta sull’”uso politico della giustizia”. Una tale bizzarra idea è stata lanciata da autorevoli esponenti di Forza Italia.
Diciamo subito che, posta in questi termini, non ha alcun senso. Cosa dovrebbe fare questa commissione? Rileggersi uno a uno i fascicoli di tutti i procedimenti giudiziari (penali, civili, amministrativi) che hanno coinvolto personalità politiche negli ultimi trenta-quaranta anni? Saranno centomila. Anche il titolo è demenziale, poiché contiene già il giudizio finale, ovvero l’uso distorto della giurisdizione. Quindi, una volta perdonato con benevolenza chi ha pronunciato una tale bestialità, si potrebbe riformulare la proposta. Innanzitutto limitandola all’unico soggetto per cui si invoca tale iniziativa, ovvero Silvio Berlusconi. In secondo luogo, titolandola in forma istituzionalmente accettabile. Per esempio: “Commissione di inchiesta parlamentare sulle attività giurisdizionali attuate nei confronti di soggetti che hanno rivestito il ruolo di Presidente del Consiglio dei Ministri nel periodo 1990-2023”. Oltre a Silvio Berlusconi, si parlerebbe anche di tal Matteo Renzi.
Confesso che, posta in questi termini, una tale iniziativa mi vedrebbe entusiasta. A patto che siano rispettate alcune ovvie condizioni. Presidenza della Commissione scelta dall’opposizione, come è naturale che sia. Membri dotati di competenza giuridica e ampio ricorso a consulenti esterni di comprovata esperienza e autorevolezza in materia. Acquisizione di tutti i fascicoli processuali riguardanti Silvio Berlusconi e i suoi stretti collaboratori. Totale pubblicità degli atti.
Una tale attività parlamentare avrebbe l’enorme merito di svelare agli italiani tutti una serie di fatti di indiscutibile interesse pubblico e storico. Ad esempio:
– A quanto ammontano le somme che le aziende controllate da Berlusconi hanno sottratto al fisco.
– Quanti sono i soggetti che i collaboratori di Berlusconi hanno corrotto, a qualsiasi titolo, e per quali ragioni.
– Quante sono le giovani (e ora meno giovani) donne che, senza alcun merito, hanno ricavato fortune economiche e/o politiche dalla sola frequentazione con Berlusconi.
– Quale grado di correlazione vi è fra le fortune politiche di Berlusconi e i successi delle sue aziende televisive.
– Quali e quanti sono gli elementi che attestano di frequentazioni, contatti, rapporti, fra Berlusconi o suoi collaboratori ed esponenti di Cosa nostra o della criminalità organizzata.
Immaginiamo che sia possibile per ogni cittadino italiano leggere gli atti processuali, attingere alle fonti, per farsi autonomamente una propria idea su tali aspetti della vita pubblica nazionale. Tutto ciò avrebbe un valore politico, storico, morale rilevantissimo.
Per cui evviva! Sollecito i dirigenti di Forza Italia a insistere, ad andare fino in fondo. Facciamola questa commissione. E finalmente sapremo, avremo sotto i nostri occhi i documenti che ci raccontano una fetta importante della storia della Repubblica italiana.


Abbattiamo il debito

febbraio 18, 2023

debito

Poche settimane di governo sono state sufficienti a Giorgia Meloni per comprendere quale sia il principale problema della “nazione”: il debito pubblico. I rapporti debito/pil, deficit/pil, la spesa per interessi. Se si vuole fare una politica seria, di destra, di sinistra o di centro, non si può che affrontare questo nodo gordiano. Il debito pubblico è la nostra zavorra e vige la convinzione che lo sarà per sempre, in eterno.
È davvero così?
Grazie al web, ognuno può farsi un’idea e darsi una risposta.
Il debito pubblico italiano ammonta a circa 2.700 miliardi, pari al 150% del PIL, di poco inferiore a 1.800 miliardi.
Nel bilancio di previsione dello Stato per l’anno 2023 sono previste entrate per circa 690 miliardi e uscite per 805 miliardi. La spesa per interessi è di 97 miliardi. Purtroppo la maggior fetta della spesa è assorbita dalla previdenza e poche sono le risorse per investimenti, istruzione, ricerca.
Davvero dobbiamo rassegnarci a questa miseria di Stato?
La severità delle istituzioni europee verso di noi ha un motivo: la considerevole ricchezza privata. In pratica i nostri partner europei lamentano che lo Stato italiano pietisce miseria, pur essendo i cittadini italiani assai ricchi. Sempre dal web ricavo i seguenti dati. Il patrimonio finanziario privato censito (cioè la ricchezza conosciuta degli italiani in forma di denaro e di prodotti finanziari) ammonta a 5.256 miliardi. Il patrimonio immobiliare ha un valore stimato in 6.000 miliardi. Già il fatto che la ricchezza finanziaria nota sia il doppio del debito pubblico dovrebbe farci riflettere. In parte è consolatorio (siamo meno poveri di quel che si pensa) e in parte è irritante (tutti questi soldi sono in mano a pochi). Comunque sia, a tali somme vanno aggiunti i patrimoni non censiti, i terreni (agricoli e no), i beni materiali (oro, macchinari, automobili, arredi…) e immateriali (marchi, brevetti, diritti…), i preziosi, le opere d’arte, eccetera. Sommando tutto, possiamo stimare il patrimonio privato degli italiani intorno ai 15.000 miliardi.
Ciò significa che una tassa patrimoniale (debolmente progressiva e seria) con aliquota media del 5%, garantirebbe un gettito intorno ai 700 miliardi. E con ciò il rapporto debito/pil che tanto ci assilla scenderebbe a una percentuale pari a quella della Francia (circa 110%). Con uno sforzo superiore (10%) si scenderebbe sotto il 70%, ovvero a livelli tedeschi.
A ciò si potrebbe aggiungere un serio contrasto all’evasione fiscale, ora che ciò è possibile con la pura e semplice abolizione del denaro contante e sostituzione con moneta elettronica tracciabile. Anche dimezzando le stime che danno l’evasione annua intorno ai 100 miliardi, in un quinquennio se ne potrebbero recuperare 250.
E il Moloch del debito pubblico sarebbe esorcizzato.
Ecco cosa servirebbe a questo malandato paese: una tassa patrimoniale una-tantum, da versare in rate annuali per un quinquennio, al fine di abbattere questo maledetto gravame che incombe su ognuno di noi. Al quale, magari, affiancare una seria trattativa con la BCE. Chiedendo, in cambio di un tale sforzo straordinario, una simultanea cancellazione del debito da essa custodito (pari a 685 miliardi). Per ogni euro di debito ripagato dagli italiani con la tassa patrimoniale, la Bce potrebbe cancellare un euro del credito che detiene. Chi sostiene che la cancellazione del debito non è praticabile, non conosce la Storia. Basti pensare alla generosità con cui la comunità internazionale condonò alla Germania il debito accumulato con le due guerre mondiali (nel primo caso stabilito e poi in gran parte rinunciato, nel secondo neppure calcolato).
Possiamo sperare che la nostra politica abbia il coraggio di mettere in campo una simile idea? Temo proprio di no. Potrebbero essere le istituzioni europee, che già furono solerti nel chiederci sacrifici terribili per pensioni e spesa pubblica. Ma forse dovremmo essere noi italiani a invocarla. A sollecitare un atto che ci liberi da questo macigno. Una volta abbattuto in tal modo il debito, visti i sacrifici che abbiamo fatto di recente, smantellando il nostro stato sociale e la nostra industria, potremmo anche pensare di metterci alla guida della Comunità europea. Che appare assai smarrita e priva di orizzonti.


Se non ora quando?

dicembre 5, 2021

Era il 2011 quando decine di migliaia di donne scesero in piazza al grido “se non ora quando?”

Legittima protesta contro la condizione femminile nella società italiana. Condizione di marginalità che perdura da sempre e che permane tuttora. E non si può che concordare con tale protesta.

Tuttavia lo slogan “se non ora quando” è dovuto a un evento particolare. Un qualcosa che era avvenuto fra il 2010 e il 2011 e che aveva fatto saltare il tappo, aveva indotto alla ribellione.

E cosa era avvenuto in quei mesi?

Era emerso lo scandalo delle cosiddette Papi girls. La denuncia pubblica di Veronica Lario del “ciarpame senza pudore”. Noemi Letizia, Patrizia d’Addario, Karima el-Mahroug. Le cene eleganti, il bunga-bunga, il lettone di Putin, Lele Mora e le Olgettine.

Lo stile di vita di Silvio Berlusconi, l’uso che faceva delle residenze di Stato, le modalità del suo rapporto con le giovani donne, erano il simbolo di come il potere maschile offende e vilipende la figura femminile, il ruolo e l’immagine della donna.

Per questo in migliaia scesero in piazza. Se non (all)ora, quando?

Orbene, avviene ora, a un decennio di distanza, che quello stesso Silvio Berlusconi, quello del bunga-bunga, del lettone di Putin e delle Olgettine, sia candidato alla massima carica dello Stato, con concrete possibilità di divenire Presidente della Repubblica.

Una domanda mi sorge spontanea: le attiviste del “se non ora quando”, nulla hanno da dire? Non le vedo, non le sento, non le leggo. Dove sono? Di fronte alla possibilità di avere per sette anni al Quirinale l’emblema della discriminazione verso le donne, non dovrebbero alzare la voce? Se non ora, quando?

 


Khaby Lame ministro del lavoro?

settembre 9, 2021

Se una cosa, per anni, per decenni, non funziona, deve venire il sospetto che sia stata pensata per non funzionare. È quello che credo della Giustizia italiana, e ne ho scritto parecchio. Ma non è l’unico esempio che mi viene in mente. Un altro è quello dei Centri per l’impiego, un tempo noti come Uffici di collocamento. Negli ultimi tempi, la politica e la stampa si sono ampiamente dedicati ad essi, invocando reiteratamente la loro riforma. Criticando la figura del navigator e citando gli esempi degli altri paesi. “In Germania hanno centomila occupati contro i nostri diecimila”. Ci manca solo che si vadano ad assumere novantamila nuovi addetti per i Centri per l’impiego. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: non funzionano.


Ci siamo chiesti come sono organizzati? Da quello che so, tali uffici raccolgono i dati delle persone in cerca di lavoro e le richieste delle imprese in cerca di personale. Quindi gli impiegati dei centri – spesso precari – “incrociano domanda e offerta” andando a verificare se una qualche azienda ricerca un profilo corrispondente al curriculum di un qualche lavoratore iscritto. Attività che svolgono loro, non esiste per lavoratori e imprese la possibilità di visionare gli archivi di domande e offerte. Ma tale incrocio, ahinoi, raramente dà esito positivo. E non è difficile comprenderne il motivo. Immaginiamo, ad esempio, un ingegnere aerospaziale disoccupato che elenca nel curriculum le proprie eccellenti esperienze. Ci sono possibilità che trovi aziende interessate? E un’impresa che pretende, ad esempio, una persona capace di parlare almeno quattro lingue, la troverà al Centro per l’impiego? Difficilmente.


E se dessimo all’ingegnere aerospaziale la possibilità di leggere tutte le offerte disponibili? Magari scoprirà, per esempio, che una concessionaria di moto cerca un venditore. Ed avendo lui la passione dei motori, oltre che dello spazio, piuttosto che essere disoccupato potrebbe accettare quel lavoro. E l’impresa in cerca del poliglotta, potrebbe trovare negli elenchi una persona che di lingue ne sa solo due, ma, per esempio, che so, è un madrelingua polacco. Ed avendo un ramo d’impresa che commercia con la Polonia, potrebbe assumerlo. Esempi stupidi per tradurre un principio generale: il soggetto più indicato per risolvere un problema che riguarda la persona X è la persona X, essa stessa. Dando ai lavoratori la possibilità di cercarsi l’impiego fra le offerte, e alle imprese quella di ricercare i dipendenti fra le domande, forse, si otterrebbe qualche risultato.

Se io fossi il dirigente di un Centro per l’impiego, creerei un Portale Lavoro con due pagine: offerte e domande. Quindi, con qualche accorgimento riguardo alla privacy, offrirei a lavoratori e imprese la possibilità di visionare gli archivi e di cercare la soluzione al proprio problema. Siamo nell’era del web, non dovrebbe essere difficile.

Pongo una domanda: esiste nei Centri per l’impiego un siffatto Portale Lavoro?
No, non esiste.
Invece di immaginare chissà quali riforme e chissà quante assunzioni, che ne dite di farlo?


Di Afghanistan e non solo

agosto 28, 2021

Di geopolitica, di esteri, ne so ben poco, quindi dovrei stare zitto. Tuttavia l’enormità dei fatti afghani induce riflessioni in tutti noi. Una su tutte: in venti anni, gli americani non hanno capito nulla del paese che hanno occupato e in cui hanno combattuto, causando – è il caso di dirlo – quasi duecentocinquantamila morti. Casa Bianca, Cia, Pentagono. Nessuno ha capito niente. Ma è la prima volta?
Impossibile non rammentare la gigantesca menzogna sulle armi di distruzione di massa attribuite all’Iraq, utilizzata per giustificare la prima guerra del golfo (cui seguirà la seconda).
Mi sovviene la gestione della crisi jugoslava, con i caccia della Nato che da Aviano volavano a bombardare Belgrado. Siamo sicuri che fosse necessario? Vado con la memoria al golpe cileno, all’abbattimento del regime democratico di Salvador Allende, sostituito dalla dittatura militare di Pinochet. Di certo non può dirsi un caso in cui gli Stati Uniti si proponevano di esportare la democrazia.
Ma di questioni ancor più pregnanti vorrei dire. Come scriveva Tolstoj, un fatto storico ci pare tanto più ineluttabile quanto più è lontano nel tempo. Episodi che ai contemporanei sembrano frutto del caso o di decisioni prese fra mille altre alternative, col passare del tempo appaiono passaggi necessari di un processo inesorabile.
Un esempio è il corso della seconda guerra mondiale, che ci pare ora dettato da scelte inevitabili, necessarie, doverose, indiscutibilmente imposte dagli eventi.
Eppure non è stato sempre così, come emerge dai trattati che gli storici militari e non produssero negli anni cinquanta, quando le librerie ribollivano di volumi sul conflitto appena concluso scritti da persone che avevano vissuto gli eventi in prima persona. In essi leggiamo che l’irremovibile politica scelta dalla Casa Bianca di condurre la guerra contro l’Asse fino alla vittoria assoluta e definitiva non era affatto condivisa da tutti, e che le alternative, secondo alcuni, c’erano. Secondo molti militari e politici dell’epoca, si sarebbe dovuto e potuto fermare la Germania molto prima del 1945, senza ostinarsi a distruggerla. Non certo trattando con Hitler, ma offrendo una sponda alla vastissima area del Reichswehr ostile al regime nazista e consapevole – fin dalla fine del 1941 – della inevitabile sconfitta tedesca. Invece, avvinta dalla retorica della resa incondizionata (United States=U.S.=Unconditioned Surrender), la Casa Bianca mantenne la sua linea intransigente. Fu una scelta giusta? Sicuramente portò all’annientamento del più disumano dei regimi che l’umanità abbia conosciuto, ma, obiettano alcuni, prolungò la guerra di almeno due anni, con conseguenze che vanno sottolineate: le morti e le distruzioni che il pianeta e l’Europa in particolare conobbero in quel biennio furono immense; l’Olocausto ebraico proseguì con ferma determinazione fino all’ultimo giorno di guerra; il prolungamento del conflitto favorì l’espansionismo sovietico, consentendo al regime staliniano di occupare militarmente l’Europa dell’Est, assoggettando per il successivo mezzo secolo paesi che avrebbero potuto essere liberi e indipendenti.

E su quest’ultimo punto, sulla divisione in blocchi che caratterizzò la Guerra fredda, non può non rammentarsi il lapidario giudizio di Hobsbawm: “l’anticomunismo ha fatto più danni del comunismo”. In tema di saggezza politica dell’amministrazione Usa, vi è infatti un filone storiografico secondo cui l’asprezza della divisione in blocchi e la folle corsa agli armamenti che caratterizzò il periodo 1945-1991 andrebbe ascritta alla miopia americana, la quale avrebbe ingigantito irragionevolmente la minaccia sovietica. Da ciò l’enorme dispendio di mezzi economici e militari che grava tuttora sul pianeta, le sanguinose guerre combattute per arginare il presunto espansionismo sovietico (Corea, Vietnam, medio Oriente) e la politica estera discriminatoria condotta verso i regimi sgraditi (Cile, Cuba, eccetera).
Anche noi italiani abbiamo titolo a interrogarci sul condizionamento della nostra vita pubblica ad opera degli Stati Uniti, che tutto fecero in mezzo secolo per ostacolare l’ingresso al governo del partito comunista. Se l’appoggio incondizionato alla Democrazia cristiana fu in larga parte legittimo, non possiamo non pensare alla moltitudine di indizi che fanno risalire ai servizi segreti americani l’avvio e il mantenimento della strategia della tensione e del terrorismo. Interrogativi che non sono mai stati diradati e che ben difficilmente troveranno risposta.
Se su tutto ciò, personalmente, ben poco posso dire, una cosa mi sembra certa: da oltre sette decenni l’Europa, l’Italia, l’Occidente, hanno seguito ciecamente la politica estera degli Stati Uniti. Quegli stessi Stati Uniti che in venti anni si sono rivelati incapaci di neutralizzare le bande di studenti coranici sperdute sulle montagne afghane.
Avremmo potuto fare diversamente e meglio? A occhio, forse sì.


La prescrizione in fase di indagine

luglio 21, 2021

Ha ragione l’avvocato Caiazza, nel dire che il maggior numero di prescrizioni non si verifica in appello, ma durante le indagini preliminari. Nella sua foga anti-pm, egli usa questo argomento per scaricare sui magistrati la responsabilità per la mancata repressione di moltissimi reati che decadono prima ancora che inizi il processo.

E a farne le spese – perdonate se insisto – sono sempre le vittime, perché in tal caso non si può proprio far nulla. Se un reato cade prescritto durante l’appello proposto dall’imputato, le statuizioni civili sono fatte salve, e la parte offesa ha diritto al risarcimento. Invece, ovviamente, se la prescrizione scatta prima della condanna di primo grado (e, a maggior ragione, prima dell’inizio del processo) amen: la parte offesa si deve rassegnare all’ingiustizia.

Ma l’enorme massa di prescrizioni in fase di indagine non avviene, come pretende Caiazza, per l’indolenza, la neghittosità, l’infingardaggine dei pubblici ministeri. Avviene perché gli atti di indagine (denuncia, avviso di garanzia, richiesta di rinvio a giudizio..) non interrompono la prescrizione.

E non è difficile capire che i reati maggiormente soggetti a questo macero sono quelli dei colletti bianchi, la cui scoperta non avviene al momento del fatto, come per i cosiddetti reati di strada. Delitti di corruzione, infedeltà, falsità, emergono solitamente a distanza di anni dalla loro commissione, e con il regime attuale cadono inevitabilmente prescritti prima ancora che si inizi a indagare.

Invece di discutere di durata dei processi di appello, sarebbe opportuno stabilire appunto che gli atti investigativi interrompono la prescrizione. Ma idee serie in Italia mai.


Si può fare

luglio 19, 2021

Nel ventinovesimo anniversario del mostruoso crimine di via d’Amelio, pur nella consapevolezza che la Giustizia italiana non ha saputo fare luce su quel fatto, di cosa discute la Politica? Di prescrizione. Non di mafia, non della pervasività del crimine organizzato nella società, non del freno all’economia causato dall’illegalità diffusa, non della legittima aspirazione a verità e giustizia che anima le vittime dei reati. Parla di prescrizione. Ovvero di quello strumento – di fatto procedurale, anche se c’è chi osa negarlo – che consente a molti colpevoli di sottrarsi al giudizio, imponendo al sistema di mandare al macero un procedimento per decorrenza dei termini.

Il fatto stesso che la cosiddetta “riforma Cartabia” verta sostanzialmente su questo unico aspetto, comprova che il livello del dibattito politico si mantiene a livelli tragicamente bassi. E conferma che fra le due posizioni dicotomiche del reo e della vittima, la Politica italiana ha scelto di schierarsi dalla parte del reo. In un paese decente non dovrebbe esservi alcun dubbio: lo Stato sta con la vittima, con il derubato, con la stuprata, con i familiari dell’assassinato, con i truffati. Non con il ladro, con lo stupratore, con l’assassino, con i truffatori. Invece no. Lo Stato italiano sta con questi ultimi.

In un paese decente, una volta iniziato il processo, lo si porta fino alla fine, si irrogano le pene e si stabiliscono le conseguenze accessorie, prima fra tutte il risarcimento della persona offesa. In Italia no. A un certo punto si archivia tutto e si mandano tutti a casa senza una risposta.

Questa esigenza è tanto sentita che, a quanto si legge, pare che Draghi e Cartabia siano disposti a rischiare la crisi di governo. Tanto può la lobby dell’illegalità. Leggo di una ministra decisa a difendere la “improcedibilità” inserita nella sua proposta, e leggo di Conte che oppone l’esigenza di dare giustizia alle vittime.

E allora ripeto una banalissima proposta che, essendo di mediazione e di compromesso, può lasciare molti dubbi, ma tiene conto delle due posizioni.

  • Qualora la prescrizione intervenga a processo in corso, con essa decade la pena per il reo, senza estinzione del reato. Il processo prosegue ai soli fini civili, ovvero per dare verità e risarcimento alla parte offesa costituita.

In questo modo si evita di condannare una persona a eccessiva distanza temporale dal fatto, e al tempo stesso si dà soddisfazione alla vittima.

Sarebbe anche auspicabile correggere altre storture vigenti:

  • Ristabilire i tempi di prescrizione anteriori alla sciagurata legge ex Cirielli, eliminando anche l’obbrobrio della prescrizione autonoma dei reati in continuazione.
  • Far decorrere la prescrizione dalla scoperta del fatto e non dalla sua commissione.

Non mi pare difficile.

Orsù, Draghi e Cartabia, si può fare.


Le inutili riforme della giustizia

luglio 8, 2021

E così, la decantata “riforma della Giustizia” concepita dalla ministra Cartabia pare risolversi nella ennesima riformulazione della disciplina della prescrizione penale, di cui si discute dai tempi della legge ex-Cirielli. Basterebbe questo a definire la presunta riforma come una modestissima modifica. Venendo al merito, siamo sempre comunque lontanissimi da una normativa decente che ci allinei a standard europei.

Non serve essere scienziati del diritto per comprendere che la prescrizione penale non dovrebbe derogare da pochi e semplici principi generali:

  • il decorso della deve iniziare al momento della scoperta del fatto, e non della sua commissione;
  • una volta iniziato il procedimento, i relativi atti formali, quali il decreto che dispone il giudizio e le sentenze di vario grado, ne interrompono il decorso;
  • qualora tra il fatto e la sentenza definitiva trascorra un lasso di tempo sproporzionato alla sua gravità, la decadenza deve estinguere la pena e non il reato, le cui conseguenze (in primis l’obbligo di risarcire il danno) devono comunque avere attuazione.

Questi elementari principi, la cui logica appare evidente a chiunque, non sono mai valsi nel nostro sistema e neppure varranno dopo la riforma Cartabia. Per cui la prescrizione continuerà ad avere sul processo gli effetti nefasti che da sempre ha e che tutti conoscono.

Questo per dire quanto il nostro sistema penale sia e resterà lontano da un assetto sensato. La colpa non è certo della ministra, la quale deve purtroppo tener conto delle posizioni dei partiti. I quali partiti, immersi come sono nella cultura di illegalità che pervade il paese da sempre, neppure concepiscono un sistema penale efficiente.

Perché parlare di riforme della giustizia che abbiano un qualche effetto benefico sulla vita collettiva è del tutto inutile, finché la politica non avrà il coraggio di dire la verità a se stessa ed a tutti noi cittadini, che paghiamo le conseguenze di una giurisdizione cronicamente inefficiente. Verità che è riassumibile in poche parole che ben conosce chi opera nei tribunali: la Giustizia italiana non funziona perché è pensata per non funzionare.

Quando avremo ben compreso questo punto cardine, potremo forse sperare di superarlo, e quindi di fare le riforme che servono. Fino a quel giorno, continueremo a pensare e varare “riforme” che perseguono il non-funzionamento. Continueremo a sentir pontificare di svolte salvifiche che in realtà non servono a niente.


Il nulla dei referendum

luglio 4, 2021

Ci potremmo chiedere se i referendum proposti dai radicali potrebbero migliorare in qualche cosa la macchina della nostra Giustizia. La risposta è fin troppo semplice: no.

In niente questi referendum possono produrre qualcosa di buono. Sono l’ennesimo episodio della stucchevole disputa fra politica e magistratura, un conflitto che ha solamente danneggiato l’azione giurisdizionale.

Per poter parlare di riforma della Giustizia sarebbe necessario mettere in agenda una completa riscrittura dei codici, innanzitutto del codice di procedura penale, cosa che nessuno osa neppure accennare.

Quindi rassegnamoci pure al nulla di quello che verrà.


E la chiamano riforma della Giustizia

Maggio 23, 2021

I codici civile, penale, di procedura civile, di procedura penale e la legge fallimentare, sommano quasi seimila articoli. Eppure si definisce “riforma della Giustizia Cartabia” una serie di modifiche che, a occhio e croce, riguardano una ventina di articoli in tutto. Va così ormai da anni, nel corso dei quali ci vengono presentate come riforme quelle che sono modestissime modifiche del corpo normativo.

La profondità dei mali della giustizia italiana richiederebbe invece una vera riforma, ovvero una riscrittura quasi completa dei codici. In particolare di quello di procedura penale, visto che il processo è il punto più critico di tutto l’ordinamento.  Se poi si passa al contenuto della cosiddetta riforma si scopre che, per quanto riguarda il processo penale, essa sembra avere due soli ingredienti: una modifica della disciplina della prescrizione e la riproposizione della legge Pecorella sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione.

La parte sulla prescrizione è talmente contorta che sembra che in pochi l’abbiano capita, ma soprattutto segna un passo indietro rispetto alla legge Bonafede. Si allontana l’obiettivo di allinearci alle normative dei paesi evoluti, ove la prescrizione si interrompe definitivamente all’atto di inizio dell’esercizio dell’azione penale, ovvero al momento della scoperta del reato.

L’inappellabilità da parte del PM delle sentenze di assoluzione è un sgorbio. Innanzitutto la pretesa che ciò sgravi le Corti d’appello dalla mole di lavoro è del tutto illusoria. Le sentenze appellate dai PM sono infatti in numero assai ridotto, quando è invece l’appello delle sentenze di condanna, semmai, a pesare sul lavoro dei giudici. Fermo restando che l’appello, di entrambe le parti, è strumento indispensabile per garantire il corretto funzionamento della giustizia penale. La mera esistenza dell’istituto (sia esso per difesa o accusa) è una garanzia per il buon operato dei giudici di primo grado, i quali, sapendo di poter essere censurati da un grado superiore di giudizio, sono indotti ad applicarsi con scrupolo ed equilibrio alla pronuncia di loro competenza.

Lo squilibrio che si produce fra accusa e difesa (la prima non si può appellare, la seconda sì!) non fa che confermare il tratto più tragico del nostro sistema. Nel procedimento penale, fra persona offesa e autore, fra vittima e carnefice, fra derubato e ladro, fra stuprata e stupratore, non può esserci “visione condivisa”, non può esserci alcuna forma di comunanza. Ognuno dei due se ne sta nel proprio angolo, nell’impossibilità di comunicazione reciproca. Qualsiasi soggetto terzo, quindi, deve scegliere con chi stare: con l’uno o con l’altro. Con la vittima o con il carnefice. Orbene, guardando con disincantata obiettività la nostra storia recente, bisogna affermare che la Politica ha schierato inequivocabilmente lo Stato dalla parte del carnefice. Lo Stato sta con l’indagato, con l’imputato, con il condannato. La persona offesa, la vittima, è irrimediabilmente sola, abbandonata a se stessa.

Per comprenderlo è sufficiente ripercorrere tutte le dichiarazioni pubbliche di ogni personalità politica in materia di giustizia penale. Facendone un’analisi testuale delle parole chiave (giustizia, magistrato, parità, accusa, difesa, eccetera) emerge anche il termine “cittadino”. Vocabolo che viene sistematicamente utilizzato come sinonimo di indagato, imputato, condannato. Per la nostra politica, il cittadino-vittima, semplicemente, non esiste. Quella delle parti lese è una categoria invisibile.

E la conferma di ciò viene proprio dall’attuale Ministra della Giustizia del Governo di Tutti, elevata da larga parte della stampa a candidata al Quirinale. Chi meglio di una ministra che ci regala l’assurdità dell’inappellabilità delle assoluzioni?

Vi ricordate la contestatissima sentenza dei blue jeans? Anni fa, la Corte di cassazione riuscì a mettere per iscritto una sentenza di assoluzione in un caso di stupro, argomentando che, allorquando la donna indossa i blue-jeans, un rapporto sessuale è necessariamente consensuale, essendo impossibile sfilare i blue jeans a una persona senza il suo consenso. Se cinque giudici della Suprema corte (non degli sprovveduti) sono in grado di scrivere ciò in una sentenza definitiva (era di cassazione senza rinvio), figuriamoci se un giudice di primo grado, un gup, non può fare di peggio. Allora immaginiamoci che ciò avvenga. Immaginiamoci che uno stupratore venga assolto in primo grado per via di un qualche indumento indossato dalla vittima (quindi non più tale). Essa vittima avrà pur il diritto di protestare. Di chiedere che si faccia qualcosa. E cosa saremmo costretti a dirle? Che non si può fare nulla, che la sentenza è inappellabile e definitiva (*). Fino al 2021 la vittima avrebbe potuto chiedere al Procuratore generale di appellarsi, ma dal 2021 ciò non è più possibile. “E a chi dobbiamo questa bella novità?” Chiede incollerita la sventurata. “Lo dobbiamo alla Ministra Cartabia, futura Presidente della Repubblica!”

(*) Qualcuno obietterà che le sentenze di primo grado resterebbero impugnabili per saltum, in cassazione (pare). Peggio ancora! Già ora la Suprema corte è oberata di un lavoro enorme, scaricare su di essa anche gli errori di primo grado sarebbe un ulteriore passo nel disastro.


Storia della sinistra

marzo 3, 2021

sinistra

In principio chiesero il voto contro la Democrazia cristiana, perché la Democrazia cristiana era il Male.
Ma alla prima occasione fecero il governo con i democristiani, perché sotto sotto volevano essere democristiani.

E allora chiesero il voto contro Berlusconi, perché Berlusconi era il Male.
Ma alla prima occasione fecero il governo con Berlusconi, perché sotto sotto volevano essere come lui.

E allora chiesero il voto contro Grillo, perché Grillo era il Male.
Ma alla prima occasione fecero il governo con Grillo, perché sotto sotto volevano essere grillini.

E allora chiesero il voto contro Salvini, perché Salvini era il Male.
Ma alla prima occasione fecero il governo con Salvini, perché sotto sotto volevano essere leghisti.

E allora chiesero il voto contro la Meloni, perché la Meloni era il Male.
Ma alla fine la gente capì, e votò la Meloni.

E così furono tutti felici e contenti, perché nel frattempo si erano tutti/e sistemati/e molto bene.


Costituzione, vittime e ministra Cartabia

febbraio 22, 2021

marta

La nomina di Marta Cartabia al Ministero della Giustizia è un’ottima cosa. Non perché sia una donna, ma perché è presidente emerita della Corte costituzionale, e quindi di costituzionalità delle leggi, indubbiamente, se ne intende. La giustizia costituzionale è cosa ben diversa da quella civile e penale, e infatti molti commentatori hanno obiettato che in quel ruolo sarebbe stato più opportuno nominare chi, di processi civili e penali, ne se più di una costituzionalista. E c’è del vero anche in questo. Ma, per altro verso, la presenza di un costituzionalista in via Arenula può avere un grande vantaggio: mettere in luce (e, se possibile, sanare) i macroscopici profili di incostituzionalità del processo penale, così come è divenuto dopo una serie di successive fasi riformatrici a partire dal 1989, anno di entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale.

Mi riferisco, in primo luogo, al fatto che l’art. 111 della Costituzione come riformato nel 1999 (che con beffarda ironia viene definito del giusto processo) costituzionalizza i diritti dell’imputato, ignorando completamente quelli della vittima (vedi i miei interventi https://sentieriepensieri.wordpress.com/2011/03/30/giusto-e-breve-magari/ , https://sentieriepensieri.wordpress.com/2018/10/30/riti-e-vittime/ , https://sentieriepensieri.wordpress.com/2013/03/14/art-111-della-costituzione/). Da esso sono discese, più o meno direttamente, una serie di novellazioni normative univocamente dirette ad aumentare lo squilibrio a favore dell’indagato/imputato a scapito della persona offesa. Un esempio gigantesco, che grida vendetta al mondo, è costituito dalla legge cosiddetta ex Cirielli che ha ridotto i termini di prescrizione. E non è un caso che sul tentativo di modificare la disciplina della prescrizione penale da parte del ministro Bonafede sia caduto il governo Conte II.

Come ho già avuto modo di scrivere negli articoli citati sotto, la disciplina della prescrizione ante-riforma Bonafede, che si vuole a tutti i costi mantenere, è palesemente incostituzionale nell’aspetto in cui di fatto nega alla vittima il diritto alla verità, alla giustizia e al risarcimento.

L’argomento secondo cui la ratio di fondo della prescrizione penale è dovuta al venir meno dell’interesse dello Stato a punire il colpevole a troppi anni di distanza dal fatto, è gravemente fuorviante. Se così fosse, dovrebbe estinguere la pena (o le pene, aggiungendo le accessorie a quella principale), ma così non è, perché essa estingue il reato, e con esso tutte le sue conseguenze, fra cui, perlappunto, il diritto del danneggiato a essere risarcito. Su questi temi mi sono già espresso: https://sentieriepensieri.wordpress.com/2016/05/22/prescrizione-e-persona-offesa/ , https://sentieriepensieri.wordpress.com/2018/11/02/vittime-e-prescrizione/ , https://sentieriepensieri.wordpress.com/2020/02/22/incostituzionalita-del-processo-la-prescrizione/ .

L’obiezione corrente, secondo cui la vittima può far valere i propri diritti risarcitori (e implicitamente di verità e di giustizia) in sede civile, costituisce una gigantesca mistificazione. Perché è vero che, in linea di principio, la persona offesa può agire personalmente contro il reo davanti al giudice, promuovendo una causa civile. Ma se effettivamente lo fa, va incontro a quasi certa sconfitta, con catastrofiche conseguenze sia penali (processo per calunnia) che patrimoniali (condanna alle spese). Perché per vincere una causa civile, il danneggiato deve possedere le prove. Prove del fatto, prove dell’identità dell’autore, prove dei danni cagionati. E in caso di reato (cioè, quasi sempre, di responsabilità extracontrattuale) ciò non si verifica. Per avere tali prove servono indagini di polizia, accertamenti tecnici dal costo considerevole, ma soprattutto serve un processo penale ove tali elementi diventino prove a tutti gli effetti, con conseguente sentenza di condanna pronunciata dal giudice penale. Sentenza che è l’unica vera garanzia del risarcimento, successivamnte liquidato dal tribunale civile, il quale si basa sul giudicato penale.

Bene. Proprio la prescrizione penale, la riforma Bonafede, saranno i primi argomenti sul tavolo della nuova ministra della Giustizia. Se Marta Cartabia farà valere le sue competenze costituzionali, saprà varare una riforma della prescrizione che tuteli anche le vittime e non solo i colpevoli. Da ciò valuteremo la sua indipendenza rispetto alla politica. Una politica che, invece, ha sempre fatto ricorso alla prescrizione per tutelare se stessa e i poteri a lei contigui.

Inoltre Marta Cartabia potrà portare nel dibattito politico il palese conflitto fra l’art. 111 Cost. e l’art. 3. Lo farà? Speriamo.


Repubblica numero Draghi

febbraio 22, 2021

Pandemia e governo Draghi hanno messo a nudo molte debolezze italiche. E fra queste una in particolare: la pochezza dell’informazione. Dovendosi confrontare con argomenti scientifici, i campioni della carta stampata e dei talk show televisivi hanno messo in mostra la loro ciclopica ignoranza. La nascita del governo Draghi, che sfugge alle categorie semplicistiche su cui si basa la comunicazione corrente, ha aggravato il disagio.

Ma una cosa mi verrebbe da chiedere a chi ci ammorba giornalmente con fesserie cosmiche: a che numero di repubblica siamo arrivati?

Nonostante si tratti di una classificazione incongrua, è purtroppo transitata nel gergo comune l’idea che siano esistite una Prima Repubblica e una Seconda Repubblica. E qualcuno aveva pure detto che era iniziata la Terza. E adesso? Siamo ancora nella seconda o nella terza? O è iniziata la quarta? Nulla di tutto ciò, ovviamente, perché non essendovi state, dal 1948 a oggi, né rivoluzioni né cambi di Costituzione, la Repubblica è fortunatamente sempre quella, senza aggettivi ordinali di sorta. E sarebbe il caso di bandirli una volta per tutte dal linguaggio politico.

Vero è, tuttavia, che l’Italia postbellica ha attraversato fasi diverse.

La prima è la fase che definirei democristiana, dal 1948 al 1993. Un’epoca nella quale la Balena bianca ha dominato la scena politica in forza del principio atlantico, impostoci dagli Stati Uniti, in virtù del quale, per implicito dogma di politica planetaria, il principale partito di opposizione non poteva accedere al governo. “Fate quello che volete, ma tenete il Pci fuori dai palazzi del potere”. Questo diceva Washington ai governanti democristiani, i quali, grazie al mandato americano, detenevano il potere a priori, forti del fatto che non potevano essere sostituiti. Scomparsa l’Unione sovietica nel 1991, e venuto meno il principio ad excludendum delle opposizioni, è bastata una breve transizione biennale per proiettare la Repubblica nella sua seconda fase, quella berlusconiana: dal 1994 al 2013. Anni nei quali la politica ha ruotato attorno alla figura dell’ex Cavaliere, sia che governasse, sia che non lo facesse. Fare politica, in quella fase, significava allearsi con B., opporsi a B., assecondare B., blandire B., imitare B., cancellare B., eccetera. Qualunque cosa facesse, il fulcro era lui. Di ciò portiamo ancora le conseguenze, quasi tutte negative.

Ma ogni essere umano ha un declino e una fine, e l’era berlusconiana è terminata. Lasciando il posto a cosa? In che era è la Repubblica, adesso? Credo che dopo una lunga e ondivaga fase transitoria, segnata da governi più pittoreschi che altro (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II), con il governo Draghi la Repubblica sia forse entrata in una nuova fase che potremmo definire europea.

Non deve sfuggire infatti che con l’approvazione del piano di sovvenzioni varato dalla Commissione europea (Next Generation EU), l’Italia passa dallo stato di contributore netto a quello di beneficiario netto del bilancio europeo. Da finanziatori, seppur indebitati, diventiamo finanziati. E se già prima le istituzioni sovranazionali dirigevano la nostra politica, da oggi saremo a tutti gli effetti sudditi di esse. Scuola, sanità, investimenti, fisco, industria… Tutto verrà deciso altrove, e non nella penisola. Il fatto che Mario Draghi, chiamato ad aprire la nuova fase a Palazzo Chigi, sia già proiettato verso il Quirinale, è la plastica rappresentazione della presa di possesso del potere italico da parte delle burocrazie sovranazionali.

Sicuramente il nostro Governo uscirà indebolito, e ancor più lo sarà il Parlamento, che già ora è mero organo di ratifica dei provvedimenti dell’esecutivo. Votare conterà sempre meno, perché i nostri partiti si selezioneranno in modo da assecondare i nuovi poteri. Ma non è detto che ciò sia del tutto negativo. Già nell’era democristiana fummo sudditi degli Usa, e sapemmo costruire qualcosa di buono. Forse può ancora succedere. A patto di essere seri. Seri e non drammatici. E nemmeno buffoni.


Esproprio, regalo o semplice buonsenso?

luglio 18, 2020

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Sulla vicenda Autostrade si è letto tutto e il contrario di tutto. Che è stato un esproprio oppure un regalo ai Benetton. A conferma che il sistema dell’informazione è incapace di analisi serie, preferendo sempre e comunque la polemica. In questo i giornali italiani sono lo specchio perfetto della politica. La politica che antepone la propaganda all’azione così come l’informazione antepone la polemica all’analisi.

In realtà il governo non ha fatto altro che applicare un principio scolpito nella pietra di ogni studio legale: la transazione è sempre preferibile alla causa.

Si è trovata una soluzione, e a chi dice che “si poteva fare meglio” bisogna rispondere che è così in ogni caso: è sempre possibile fare meglio. È come dire che l’acqua è bagnata.

Quello che conta è che si è eliminato l’assurdo di un monopolio privato in un settore, quello autostradale, nel quale la concorrenza è impossibile, per cui la gestione privata è priva di senso. Abbiamo semplicemente posto rimedio a un errore madornale commesso alla fine del secolo scorso, ebbri della foga privatrizzatrice. Si dovrebbe avere il buonsenso di ammetterlo e di voltare pagina, guardando avanti.