Oggi pomeriggio, alle ore 18, in qualità di esponente del Movimento Agende Rosse, avrò l’onore di presentare Bruno Tinti all’incontro intitolato “riforme vere e finte in tema di giustizia” che si terrà presso la libreria Lovat (viale XX settembre, Trieste).
Il titolo suggerisce il concetto della mistificazione che la politica e l’informazione ad essa asservita ci propinano su ogni argomento, ma che in materia di giustizia tocca vertici ineguagliati. Sono ormai entrate nel senso comune formule ed enunciazioni dietro le quali si nascondono finalità opposte a quelle che dovrebbero essere le linee di una razionale amministrazione della giustizia; e sono in vigore leggi assurde, demenziali, che nessuno si sogna neppure più di criticare. L’elenco è talmente lungo che non saprei da dove cominciare.
Partiamo per esempio dall’indulto del 2006. Un provvedimento presentato all’opinione pubblica come necessario per alleviare la condizione dei detenuti, stipati in carceri sovraffollate, ma che invece riguarda solo in minima parte tale categoria. La stragrande maggioranza dei beneficiari, infatti, sono soggetti che comunque mai sarebbero entrati in carcere. Basti dire che l’indulto condona anche le multe, quando effetto di conversione in pena pecuniaria di pena detentiva. Nel nostro ordinamento una pena inferiore ai sei mesi di reclusione è commutabile in multa al tasso di conversione di trentotto euro per ogni giorno. Ne consegue che per reati considerati minori (ma minori fino ad un certo punto perchè vi rientrano ad esempio la truffa, l’appropriazione indebita, le lesioni personali, l’omicidio colposo, la bancarotta semplice, la ricettazione eccetera) commessi anteriormente al 2 maggio 2006, chiunque abbia riportato una pena di qualche migliaio di euro di multa se la vede interamente cancellata dall’indulto. Ci si chiede: cosa c’entrano le multe con il sovraffollamento delle carceri? E perchè chi invece ha subito una multa per una violazione del codice della strada la deve pagare comunque?
Ed il giusto processo? Un principio inserito addirittura in Costituzione (art. 111) che impone “condizioni di parità fra accusa e difesa”. Ma cosa significa? Nel processo penale accusa e difesa hanno ruoli e finalità differenti. L’accusa “costruisce” l’impianto probatorio, deve provare positivamente che è stato commesso un reato e che l’imputato ne è il responsabile. La difesa deve semplicemente confutare, “distruggere”. Parlare di parità è come affermare che chi costruisce case deve avere gli stessi strumenti di chi le demolisce. Che senso ha? Ma non è tutto. Il Pubblico Ministero (l’accusa) ha (ovviamente) obbligo di verità. Deve cioè portare a processo tutte le prove, anche quelle a favore dell’imputato; e se, in qualsiasi momento del procedimento, si accorge che l’indagato/imputato è innocente, deve chiederne il proscioglimento. La difesa ovviamente non ha un obbligo speculare, anzi! Dov’è la parità? Perdipiù, nel nostro ordinamento (e solo nel nostro!), l’imputato ha facoltà di chiedere la parola in qualsiasi momento del processo e riversare sulla corte un valanga di falsità senza nulla temere. Che parità è mai questa? Provate ad immaginare una causa di divorzio (in quel caso sì che le parti sono in condizioni di parità) nella quale la moglie è obbligata a dire la verità mentre al marito è concesso seppellire il giudice di menzogne. Vi pare un “giusto processo”?
E gli esempi potrebbero continuare. L’assurdità della prescrizione in corso di processo, con l’oscena abbreviazione introdotta dalla legge ex Cirielli; l’impugnabilità gratuita, a rischio zero, di ogni provvedimento, con conseguente espansione indeterminata dei tempi processuali; l’assurda depenalizzazione del falso in bilancio, per cui, con le parole di Davigo “è come imporre la punibilità del furto a querela del ladro”. L’automatismo degli sconti di pena, che obbliga il giudice a condonare pene a chiunque, anche ai peggiori criminali; l’impossibilità per le magistrature superiori di “riformare in pejus” così che risulta incentivata la reiterata impugazione.
Si potrebbe continuare con la cosidddetta “terzietà del giudice” che si è trasformata in “cecità del giudice”, privandolo dei poteri di cognizione che erano previsti dal vecchio rito inquisitorio (abbandonato nel 1989 con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale). Cecità che si vuole imporre anche al Pubblico Ministero con “riforme” volte a limitarne i poteri di indagine: si pensi all’oscena legge contro le intercettazioni telefoniche ed ambientali ed alla volontà di attribuire solo alla Polizia Giudiziaria l’attività investigativa.
Infine non posso tacere il totale disprezzo dei diritti della persona offesa che, nel nostro ordinamento, oltre ad essere vittima del reato, è vittima del processo, della sua inammissibile, intollerabile durata, e della smisurata generosità verso i colpevoli ispirata da un falso garantismo. Garantismo fasullo perchè disegnato in favore degli indagati/imputati colpevoli e non certo verso gli indagati/imputati innocenti. Hanno voluto modificare la Costituzione con il “giusto processo”; io, in quell’articolo, ci avrei inserito una frasetta facile facile: “il processo deve assicurare un equo risarcimento alla persona offesa dal reato”. L’hanno messa? Macchè, nemmeno di hanno pensato.
Di questo ed altro ci sarebbe da parlare per ore. Ascolterò domani Bruno Tinti, per un’oretta almeno.
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Bruno Tinti è stato procuratore aggiunto a Torino, occupandosi in particolare di reati fiscali, societari, finanziari e fallimentari. Professore universitario, ha scritto due saggi divulgativi – “toghe rotte” e “la questione immorale”, tiene un blog intitolato “toghe rotte” e scrive su Il Fatto Quotidiano. Attività queste con le quali ha cercato di rompere la cortina mistificatoria di cui ho parlato e di indicare le vere riforme, grandi e piccole, che servirebbero.
Lavorando a Torino il dott. Tinti ha avuto come Procuratore Capo Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 da due sicari della ‘ndrangheta, che già allora aveva cospicui interessi economici in Piemonte. Tengo a dirlo perché se è giusto da un lato ricordare e celebrare Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, bisognerebbe anche ricordare altri magistrati come appunto Caccia (ed anche, ad esempio, Rocco Chinnici ed Antonino Scopelliti), che ebbero la stessa tragica sorte ma sono stati colpevolmente dimenticati dall’opinione pubblica.